IL CONFINE MARITTIMO ISRAELO-LIBANESE NEL QUADRO DELLE RISORSE ENERGETICHE DEL MEDITERRANEO ORIENTALE

Fonte di nuove tensioni o di nuove opportunità? Occasioni mancate e possibili sviluppi

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Di Paolo Sandalli

Ammiraglio di Squadra (in ausiliaria) della Marina Militare Italiana e già Comandante dal 27 Novembre 2009 al 2 Settembte 2010 della Forza Marittima delle Nazioni Unite in Libano (Unifil Maritime Task Force)

Quando il premier libanese Fouad Siniora, chiese il 6 settembre 2006 al Segretario Generale delle N.U. Kofi Annan che la risoluzione n. 1701, intesa a stabilizzare la situazione al termine di quella che viene chiamata Seconda Guerra Israelo-Libanese, fosse irrobustita con la previsione di una componente marittima internazionale che, susseguentemente al rilascio del blocco navale israeliano posto per 58 giorni ai porti libanesi, presidiasse gli spazi e gli accessi marittimi del paese e preparasse al contempo la sua Marina a svolgere in autonomia tale compito, prese una decisione di portata storica e di altissima lungimiranza che pochi colsero a quel tempo e che avrebbe potuto portare a risultati anche superiori se le intrinseche capacità politico-diplomatiche delle forze navali fossero state sfruttate meglio e molte buone occasioni non fossero andate perse.

A seguito di tale richiesta infatti venne creata la Task Force 448, meglio conosciuta come Unifil Maritime Task Force, che, oltre ad essere la prima ed unica forza marittima di peace keeping organizzata e condotta sotto egida delle N.U. ha contribuito a creare o si è trovata coinvol

ta di fatto o potenzialmente in una serie di condizioni, eventi e fattori di carattere anche strategico, politico ed economico che trascendono il semplice mandato operativo ricevuto e sono del resto intrinseci al dispiegamento di qualsiasi forza navale in un teatro di crisi, come la storia insegna.

Tutto ciò si palesa sempre più chiaramente ora che le risorse energetiche scoperte al largo delle coste del Mediterraneo Orientale accendono nuovi motivi di tensione o forse anche, come da più parti si auspica, nuova opportunità di negoziato, per un concordato e pacifico sfruttamento di tali risorse che possa innescare processi di stabilizzazione e sviluppo per tutti gli attori coinvolti. Tutto ciò induce peraltro a valutare che le potenzialità dello strumento navale non sono state spesso colte e sfruttate appieno né dal DPKO (Department PeaceKeeping Operations) delle N.U., il cui staff militare (OMA: Office of Military Affairs) soffre di una cronica carenza di maritime expertise, né in campo nazionale ed europeo, ove sono state perdute fondamentali occasioni per non aver voluto mantenere la guida di tale missione, iniziata e tenuta saldamente nelle mani di un Ammiraglio italiano dal 2006 al 2010, salvo una breve parentesi di pochi mesi di guida tedesca, francese e belga e quindi comunque europea, ma ormai da 8 anni affidata alla Marina del Brasile, i cui interessi e visione strategica in Mediterraneo non sono certo paragonabili ai nostri, quando non sono addirittura antagonisti (1). Peraltro, se nella polveriera mediorientale dovesse verificarsi nuovi scenari di crisi tra Israele e Libano (e nei mesi di febbraio e maggio u.s. vi siamo andati molto vicini), sarà proprio il fronte a mare, con l’irrisolta questione del confine marittimo tra i due paesi e le conseguenti ripercussioni sulle possibilità di sfruttamento delle risorse sottomarine, a fornire il casus belli e la MTF il più importante strumento di intervento onusiano.

Le prospezioni per la ricerca di idrocarburi nel Mediterraneo orientale, come noto, furono avviate nel 2004 soprattutto da parte francese e statunitense. Nel 2006 si ebbero le prime valutazioni positive sulla probabile presenza di risorse di gas naturale, ma conferme e certezze vennero solo nel 2009 e furono le indagini degli anni successivi che appurarono l’enorme consistenza di tali risorse che si stima in tutto il Mediterraneo orientale ammontino a 40 trilioni di metri cubi di gas, di cui una non trascurabile parte è costituita dal giacimento Leviathan prospiciente le coste di Israele, Libano, Striscia di Gaza con estensione fino a Cipro.

Quando nel 2006 le Nazioni Unite assegnarono alla Forza Marittima di Unifil missione, compiti e area di operazioni, tale elementi non erano ancora noti, anche se negli ambienti specialistici e nelle cancellerie dei paesi interessati ai diritti e allo sfruttamento si cominciava ad averne sentore.

Il compito assegnato alla forza era ed è tuttora quello di assicurare sorveglianza e presenza in un area marittima (AMO: Area of Maritime Operations) prospiciente i circa totali 200 chilometri ci costa libanese dal confine israeliano a quello siriano per una profondità di 50 miglia nautiche al fine di assistere la Marina di Beirut nel controllo dei propri spazi marittimi e della proprie acque territoriali con particolare riguardo all’accesso ai porti per prevenire il traffico illecito di armi ed armamenti verso il Libano. Concetto essenziale contemplato dalla risoluzione 1701 é inoltre quello di coinvolgere pienamente la LAF Navy nelle operazioni ai fini di addestrarla e accrescerne le capacità operative fino all’auspicato raggiungimento della necessaria autonomia operativa. In sostanza la MTF duplica in mare il concetto stabilito per il territorio libanese a sud del Litani: le forze onusiane di Unifil fungono da interposizione e deterrenza lungo la linea di armistizio, assicurando vigilanza e controllo nei confronti di possibili violazioni del cessate il fuoco; alle Forze Armate Libanesi, che Unifil è altresì incaricato di addestrare, spetta invece il controllo del territorio nel pieno rispetto della sovranità del paese. Le milizie avrebbero invece dovuto essere disarmate nel quadro del pieno recupero dell’autorità del governo centrale. E noto come tale ultimo punto costituisca il punto debole della implementazione ed efficacia della Risoluzione come sempre sostenuto da Israele. La narrativa della necessità della “Resistenza” affermata da Hezbollah e accettata per amore o per forza dal governo legittimo del paese e anche da larghi strati della opinione pubblica anche non sciita, quale efficace strumento di difesa nazionale, capace di scoraggiare qualsiasi nuova iniziativa israeliana, ha condotto alla rinuncia di fatto di tale obiettivo e alla nota situazione di un esercito dentro un esercito e di un governo dentro un governo, che vede di fatto il Partito di Dio capace di provvedere in proprio alla difesa del sud del paese, di scatenare a proprio piacimento provocazioni o lanci di razzi verso il vicino, di condizionare la politica del paese e le sue scelte strategiche e di fatto governare e controllare autonomamente il sud dello stesso, oltre a costituire una delle principali spine nel fianco dello stato ebraico, le cui mosse sono di fatto paralizzate dal potenziale militare di Hezbollah.

Peraltro il sistema finora si è mantenuto in equilibrio, anche passando attraverso le primavere arabe e la crisi siriana, assicurando, a parte sporadici incidenti, l’efficacia del cessate il fuoco e il mantenimento dello status quo.

Altrettanto validi, ma con un quid aggiuntivo, si sono dimostrati i risultati in campo marittimo. La presenza della MTF davanti alle coste libanesi per una profondità di circa 50 miglia, ha garantito da oltre 12 anni sia il cessate il fuoco che il rilascio del blocco, assicurando che nessuna unità navale israeliana si presentasse in tale spazio di mare. Nel corso dell’intero anno in cui ho avuto il privilegio di comandare la MTF, ad esempio i pattugliatori con la stella di Davide si sono sempre scrupolosamente mantenuti al di fuori dell’AMO, nonostante questa si estendesse ampiamente anche in acque internazionali ed hanno rinunciato ad entrarvi anche in circostanze particolari, come nel caso del transito da Cipro alle coste di Gaza del Mavi Marmara (2), con i successivi noti incidenti che se fossero accaduti in AMO avrebbero dovuto comportare un difficile e delicato intervento delle unità navali al mio comando o il 20 luglio 2010, quando un pontone stracarico di militanti e bandiere di Hezbollah si diresse provocatoriamente da Tiro verso le acque territoriali israeliane, la cui Marina peraltro, tenendosi in contatto con chi scrive, lasciò che fossero la presenza e le azioni dissuasive e persuasive delle mie navi a far invertire la rotta ai miliziani.

Il risultato maggiore prodotto fin dai primi mesi della presenza di MTF, non si è peraltro registrato sul diretto piano militare e del rispetto della tregua, ma sul piano ben più importante del risollevarsi della economia del paese con la ripresa dei traffici marittimi e del commercio che prima della crisi siriana, aveva ricominciato ad estendersi anche ben oltre i confini del paese, verso Siria, Giordania, Iraq ed oltre, che allora vantavano economie tutte in espansione e per cui Beirut e gli altri porti libanesi costituivano la porta di accesso al Mediterraneo. La presenza delle forze navali onusiane, rendendo sicura e protetta un’ampia zona di mare di 5000 miglia quadrate prospiciente tutta la costa, ha fatto rifiorire il paese, infondendo fiducia per gli operatori economici e gli investimenti esteri. Grazie alla presenza di MTF, nel giro di un paio di anni dalla cessazione delle ostilità perfino le navi da crociera sono tornate ad attraccare a Beirut con il loro carico di turisti interessati alle bellezze e alla storia del paese.

Anche per il teatro marittimo rimaneva (e rimane) irrisolto il problema dell’efficacia dei controlli sul traffico d’armi. Le unità MTF non sono autorizzate ad ispezionare direttamente le navi dirette verso i porti libanesi. La procedura prevede che i bastimenti sospetti siano segnalati alla Marina Libanese che provvede alla ispezione. La LAF Navy di solito, si limita ad inviare a bordo a mezzo delle proprie poche e spesso antiquate motovedette (anche se nuove acquisizioni si sono registrate recentemente) un team ispettivo che provvede ad un semplice controllo formale dei documenti di carico. Anche il teatro marittimo pertanto è affetto dalla medesima finzione, di fatto a tutti evidente e tollerata nel complesso gioco delle parti del paese, ma che alla fine ha consentito il perdurare della tregua e l’equilibrio tra gli obiettivi dei diversi attori coinvolti.

Unifil peraltro svolge altre fondamentali funzioni, tra le quali quella di raccordo tra le parti in causa attraverso il meccanismo cosiddetto tripartito, ideato brillantemente dal Generale Graziano nel suo lungo e fondamentale Comando della forza di interposizione che ne ha impostato il carattere, le procedure e il modus operandi secondo i criteri che a quasi dieci anni dalla fine del suo mandato restano validi e tuttora in vigore. Il Tripartito è una riunione convocata frequentemente o quando necessario sotto la presidenza del Force Commander, ove siedono, ancorché rancorosi e volgendo le spalle al territorio dell’avversario, rappresentanti delle Forze Armate Israeliane e Libanesi ed è l’unica sede in cui si è riusciti stabilire un minimo di dialogo, al fine di evitare o almeno limitare e comporre incidenti. Tra le questioni trattate vi è quella di cercare di risolvere le dispute di confine connesse alla cosiddetta blue line.

Le questioni di confine tra i due paesi risalgono alla precedente crisi del 2000. A seguito della risoluzione ONU n. 425 gli israeliani si ritirarono dal sud del paese attestandosi dietro la stessa linea di un ancora precedente accordo per un cessate il fuoco del 1949, cui era allegata anche una mappa in scala 1:50.000 che grosso modo ricalcava un confine amministrativo tra province dell’ Impero Ottomano e del successivo mandato francese sul territorio siriano e libanese derivante dagli accordi Sykes-Piquot e che quindi non era mai stata una frontiera ufficiale tra i due paesi che di fatto non è mai esistita. Ritirandosi nuovamente dal Libano dopo i conflitti del 2000 e del 2006, gli Israeliani hanno preso a riferimento lo stesso tracciato attestandosi oltre tale cosiddettablue line che costituisce quindi una linea di armistizio e non una frontiera riconosciuta. La genesi di tale linea che manca del presupposto giuridico di una vera frontiera storica basata su un preesistente trattato, complice anche la scarsa precisione della cartografia storica di riferimento adottata nel 1949 ha dato adito ad una serie di contenziosi e rivendicazioni, soprattutto da parte libanese, che appaiono pretestuosi perché spesso riguardano aridi fazzoletti di terra disabitati (3), ma che servono a mantenere aperta la partita per chi ne abbia intesse (nel caso specifico in particolare Hezbollah per alimentare la retorica della “ resistenza” e di pezzi di Libano ancora in mano allo straniero quale giustificazione per il proprio efficace apparato militare). Israele invece per il motivo opposto, ha tutto l’interesse che la situazione si definisca e a tale scopo ad inizio 2018 ha cominciato a costruire un muro lungo la blue lineche costituisca sia elemento difensivo contro possibili incursioni di Hezbollah simili a quella che scatenò la guerra del 2006 (4), sia per marcare il confine con un’opera permanente che in qualche modo costituisca fatto compiuto. Ciò ha comportato le vibrate proteste libanesi che hanno raggiunto il culmine nel mese di febbraio portando i due paesi nuovamente sull’orlo di una guerra.

Tra i punti di confine controversi particolare rilievo assume quello di Rosh Hanigra dove la blue line incontra la costa. Da tale punto infatti dovrebbero essere tracciate le linee di base da cui misurare le acque territoriali dei due paesi e, partendo dalla normale alla linea di costa nel punto in cui la frontiera incontra il mare, la demarcazione delle loro acque territoriali. Il prolungamento di tale linea di confine marittimo verso il mare aperto delimiterebbe a sua volta la separazione tra le rispettive zone economiche esclusive che gli stati rivieraschi hanno diritto a dichiarare secondo il Diritto Marittimo. La risoluzione ONU nr 425 del 2000 non aveva prolungato verso il mare la blue line, mentre invece a terra, dopo molti sforzi delle Nazioni Unite con i rappresentanti dei due paesi, gran parte del tracciato è stato materializzato sul terreno ancorché restino contestati una dozzina di punti. Tra questi quello di Rosh Hanigra dove peraltro di iniziativa unilaterale, Israele dal punto di costa da esso riconosciuto e presidiato fin dai ritiri del 2000 e 2006, ha materializzato il proprio asserito confine marittimo con una linea di boe continuamente presidiata dalle proprie forze navali. Il Libano invece, disconoscendo da una parte il punto di origine e dall’altra conseguentemente anche la normale alla linea di costa materializzata dall’avversario con la linea di boe, ha presentato nelle pertinenti sedi internazionali una carta nautica con una diversa angolazione della linea di demarcazione marittima. Si comprende bene che anche una minima divergenza di pochi gradi, quando prolungata verso il largo, dà origine ad un triangolo di mare che progressivamente si allarga, con influenza non trascurabile se si intendono sfruttare le risorse che insistono nelle acque e soprattutto nei fondali di tale tratto di mare disputato che, nel caso in questione, ammonta a circa 860 kmq. Il problema è ulteriormente complicato dal fatto che Israele e Cipro hanno nel frattempo concordato e delimitato tra loro le rispettive zone di sfruttamento laddove le loro coste sono prospicienti sulla base della cartografia riconosciuta da parte israeliana, mentre a breve potrebbero iniziare da parte israeliana operazioni nelle aree che ricadono nella zona contestata.

Nello scorso mese di maggio, quando è corsa notizia che il consorzio Total-ENI-Novotek, cui Beirut ha concesso gli appalti, potesse iniziare le operazioni nel Blocco 9 del giacimento che ricade nell’area contesa, lo scontro verbale tra Israele e Libano ha avuto un picco che ha fatto temere il peggio a molti analisti e che in definitiva si è tradotto in un nuovo vantaggio per Hezbollah che ancora una volta ha potuto riunire intorno a se larghi strati dell’opinione pubblica e del parlamento, anche in linea di principio contrari al movimento, in quanto quest’ultimo e i suoi armamenti rappresentano in definitiva l’unica garanzia per la protezione di una risorsa che per il Libano è essenziale per risanare il proprio ingentissimo debito, rilanciare l’economia del paese e far partire un piano di infrastrutture di cui ha estremo bisogno. Da parte di Tel Aviv viceversa è altrettanto essenziale che tali risorse non vadano ad alimentare ulteriormente le già cospicue risorse con cui Hezbollah finanzia il proprio apparato militare e di controllo del territorio.

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Mappa dei Giacimenti di fronte alle coste israelo-libanesi (Fonte Asia news)

Si innesta a questo punto la discussione e il rimpianto per le occasioni perdute.

Quando nel dicembre 2009 assunsi il comando della MTF, Il confine marittimo era un tema marginale nell’agenda politica dei due paesi e nelle considerazioni operative e di sicurezza dei vertici sia di Unifil che degli apparati di difesa di entrambe la parti. L’unico incidente serio risaliva agli anni ‘90, quando un miliziano in acqua scooter tentò di far fuoco sui turisti che visitavano le grotte marine di Rosh Hanigra, appena al di là del confine, prima di essere freddato dalle forze di sicurezza di Israeliane e fu proprio tale episodio che spinse Israele a stendere la linea di boe collegate tra loro da un cavo di arresto per una profondità di ben 12 miglia e con una lieve inclinazione di sicurezza rispetto alla normale alla costa (poi contestata da parte libanese così come il punto di origine) per prevenire episodi similari. L’attività di pattugliamento delle mie forze lungo la linea si limitava al controllo dei pescherecci di Tiro che si avvicinavano per raccogliere in superficie il pesce vittima delle esplosioni di bombette subacquee che frequentemente la Marina Israeliana impiegava a scopo dissuasivo contro possibili infiltrazioni di sommozzatori. Il tema dello sfruttamento delle risorse era ancora alquanto vago in quanto i risultati delle prospezioni erano ancora incerti e non era ancora chiaro se e quanto il giacimento scoperto al largo delle coste israeliane lambisse anche le acque potenzialmente libanesi. Nessuno dei due paesi inoltre allora aveva dichiarato una Zona Economica Esclusiva (ZEE), fermo restando che il potenziale sfruttamento delle risorse della piattaforma continentale prescinde da tale dichiarazione e potrebbe aver luogo ab initio. (5)

Constatai anche subito di avere presso entrambe le Marine due interlocutori di eccezione. A Beirut sedeva infatti al vertice della LAF Navy Alì El Moellem, mio compagno di studi all’Istituto di Guerra Marittima di Livorno, quindi molto ben edotto in campo di strategia marittima e consapevole del ruolo abilitante che le Marine possono esercitare anche in appoggio anche alle diplomazie e a negoziati internazionali, nonché convinto assertore, anche per la sua fede sunnita, che il governo centrale dovesse riappropriarsi totalmente della guida del paese senza i condizionamenti di Hezbollah (fu questo il motivo per cui fu poi purtroppo rapidamente sostituito con l’ammiraglio Baroudi, certamente serio e competente, ma non altrettanto aperto e brillante, anzi molto attento e prudente a non esporsi con iniziative innovative e personali). A Tel Aviv era invece Capo di Stato Maggiore l’ammiraglio Eliezer Marum, già personalmente conosciuto avendo condiviso l’esperienza di Addetti per la Difesa dei nostri rispettivi paesi a Singapore. La famiglia di origine di Marum, dedita al commercio, apparteneva alla non vasta comunità giudaica presente in Cina e si era trasferita in Israele all’indomani della fondazione dello stato ebraico. Dalle sue origini aveva tratto pragmatismo imprenditoriale che lo portava a ritenere che un accordo anche imperfetto dà maggiori frutti che nessun accordo. A Singapore costituiva un punto di riferimento importante per lo specialissimo rapporto esistente tra la città-stato e Israele e avevamo spesso avuto modo di discutere le numerose questioni marittime che pervadono le relazioni internazionali del sud-est asiatico commentando sempre favorevolmente la prassi regionale del frequente ricorso al negoziato diretto o all’arbitrato internazionale per dirimere molti contenziosi. Egli era anche personalmente convinto che un Libano prospero e stabile rientrasse anche negli interessi israeliani in quanto capace di affrancarsi dal condizionamento imposto dall’arco estremista sciita che attraverso Iran, Siria ed Hezbollah si allunga da Teheran fino alle sponde del Mediterraneo.

Quando proposi ad entrambi gli ammiragli, incontrati nel corso delle prime due settimane di mandato al comando della MTF, di inserire la questione del confine marittimo nell’ambito del dialogo tripartito, organizzando a bordo della mia Nave Comando una dedicata riunione del tripartito, facendo incontrare sotto la presidenza del Force Commander i Comandanti In Capo delle due Marine per discutere della sicurezza lungo la linea di boe e in AMO, nonché per avviare un dialogo sul confine marittimo, la reazione fu altamente positiva da parte di entrambi.

Purtroppo tale primo tentativo si infranse molto presto sugli scogli della politica, dei sofismi giuridici e forse anche delle agende personali ed interforze. Mi fu infatti obiettato che il meccanismo tripartito era strettamente legato alla risoluzione 1701 originale, mentre la MTF, traendo origine dalla lettera del premier Siniora a Kofi Annan quale assistenza a seguito del sollevamento del blocco israeliano, era integrazione successiva per cui gli aspetti marittimi non potevano essere inseriti nel dialogo tripartito, né Unifil disponeva di un mandato specifico sulla frontiera marittima. La mia contro-obiezione che la lettera di Siniora facendo comunque riferimento alla UNSRC 1701 con specifica richiesta di assistenza “in securing the maritime border” lasciava ampio margine per interpretazioni che potevano essere sollevate con i numerosi policy advisors delle Nazioni Unite presenti tanto in teatro che a Palazzo di Vetro, data l’importanza dell’obiettivo che si intendeva conseguire, non aveva seguito concreto. Oggi infatti il tema si pone invece ampiamente all’attenzione di Unifil e ha costituito una delle principali gatte da pelare del periodo finale del mandato del Generale Beary prima del suo recentissimo avvicendamento con il Generale Del Col, mentre si moltiplicano i tentativi di mediazione a Washington , come a Mosca e a Parigi.

Riprendevo quindi il tema in seguito conscio della necessità di portarne l’attenzione a livello politico, anche perché nei mesi successivi una serie di episodi avevano nel frattempo portato l’attenzione della opinione pubblica e della politica libanese sui temi marittimi. La MTF, su richiesta del governo di Beirut e autorizzazione delle N.U. aveva condotto tre diverse importanti operazioni di soccorso al largo delle coste del paese, che avevano dimostrato l’assoluta mancanza nel paese dei cedri di una pur minima organizzazione nazionale di ricerca e soccorso a mare, nonostante gli obblighi internazionali. Il procedere delle prospezioni iniziava inoltre a fornire importanti conferme della presenza dei giacimenti e della loro ubicazione; si era quindi perduta l’occasione di affrontare il dialogo nel momento in cui l’interesse marginale avrebbe forse favorito e accelerato una soluzione concordata. Tuttavia la nuova situazione che andava subentrando suggeriva di perseguire l’obiettivo con ancora più determinazione al fine di prevenire l’instaurarsi di un nuovo contenzioso tra i due paesi, come di fatto poi purtroppo avvenuto. Il rifiorire dei traffici alimentava inoltre il dibattito sul sistema portuale del paese che stava iniziando ad essere insufficiente per le esigenze, non solo per il porto principale di Beirut, ma anche per quelli minori.

Ebbi quindi modo di parlarne nel maggio del 2010 sia con l’Inviato Speciale dell’ONU Dott. Williams, sia con il principale Policy Advisor delle Nazioni Unite presente in teatro Milos Strugar. Entrambi si dissero interessati alla iniziativa, anche perché il tema delle risorse energetiche in corso di individuazione stava diventando caldo e negli ambienti politici libanesi si iniziava ad accennare alla necessità di addivenire, almeno con Cipro, ad una sorta di arbitrato internazionale con un Authorityche definisse le concessioni da attribuire a ciascun paese avente titolo. L’esplorazione di un tentativo di dialogo con Israele, ancorché a livello operativo militare tra le due marine sotto gli auspici di Unifil, che potesse poi aprire la eventuale strada ad un dialogo politico, appariva allettante. Con Strugar se ne parlò più diffusamente in una colazione organizzata a bordo alla presenza dell’Ambasciatore d’Italia Gabriele Checchia, che molto sensibile al tema per i possibili interessi nazionali verso ENI, ne informò il MAE con messaggio dedicato.

Purtroppo però, anche in tale frangente, non si passò ad azioni concrete per il sopravvenire di una nuova grande occasione perduta: l’incapacità delle nazioni europee di accordarsi per dare continuità al mandato sulla MTF, con un ammiraglio al comando e una flagship a livello fregata che consentisse di assicurare il controllo operativo delle forze navali per mare con la dovuta efficacia e visibilità. Il mio mandato al comando della forza era già stato esteso dall’ONU fino alla fine di agosto 2010, ma il ritiro della fregata italiana era decretato per la fine di giugno con l’avvicendamento con un pattugliatore privo degli spazi e dei sistemi di comunicazione per condurre la missione con le modalità fino ad allora assicurate. Lo Stato Maggiore Difesa, pressato dalle restrizioni di bilancio, valutava necessario sospendere con la cessazione del mio mandato, anche ogni partecipazione marittima ad Unifil, per dedicare le ridotte risorse ad altri teatri operativi ritenuti prioritari. L’ 8 giugno fui convocato a New York per approntare un piano di emergenza con l’Office of Military Affairs (diretto da tre ufficiali generali di cui nessun ammiraglio e praticamente privo di ufficiali di Marina anche a livello staff ) per trasferire a terra al termine del mio mandato e del contestuale ritiro del pattugliatore italiano a fine agosto il Comando della prima ed unica missione di pace navale delle Nazioni Unite, che da quella data, anziché come una Forza Navale d’altura capace di influenzare gli eventi e gli assetti strategici dell’area attraverso gli intrinseci compiti di diplomazia navale e i sistemi di sorveglianza e comando e controllo posseduti e gestiti da bordo, fu gestita come una flottiglia di piccole motovedette che operi sotto costa d’estate per la sicurezza dei bagnanti e diportisti guidata da una piccola centrale operativa costiera.

Tutto ciò per alcune settimane fino a che la Marina Brasiliana non offrì alle Nazioni Unite un Ammiraglio e una Unità navale sede di Comando, assicurandosi presso il Palazzo di Vetro una fede di credito tale, per aver salvato la MTF da sicuro naufragio, che le consente di mantenere tale prestigiosa posizione finché sarà di suo interesse, e tale interesse perdura, in termini evidentemente tanto politici, strategici ed economici (l’import-export del Brasile nella regione è significativamente aumentato), quanto in termini di prestigio, preparazione ed esperienza della propria Marina. Da allora infatti, e sono ormai otto anni, il vessillo di una Marina di un paese emergente extra-europeo sventola accanto a quella delle Nazioni Unite sulle sponde del Mediterraneo in un area di delicatissimi equilibri geopolitici per la stabilità dell’intero bacino e della intera Europa, dove si gioca una partita essenziale per le concessioni dello sfruttamento delle risorse energetiche e la sicurezza di piattaforme e operazioni che riguardano anche la nostra ENI, dove abbiamo contingenti di nostri militari che potrebbero trovarsi anche all’improvviso nelle condizioni di ricevere supporto, protezione o anche evacuazione dal mare, così come le consistenti comunità occidentali presenti nel paese.

E’ certamente vero che la vicinanza di tale teatro operativo alle nostre basi, consentirebbe di montanare in tempi brevissimi, qualora si instaurassero le condizioni da richiederlo, una operazione aeronavale nazionale per far fronte a tutte le esigenze di cui sopra, che tra l’altro non rientrano affatto nel mandato onusiano della MTF. Ma è altrettanto indiscutibilmente vero che l’investimento profuso in Libano dal nostro paese da quasi cinque decenni, il ruolo anche simbolico che tale paese rappresenta in tema di tolleranza religiosa e di baluardo nella regione di una presenza cristiana che forse solo in quel paese non è ancora perseguitata , nonché quello di porta marittima del Medio Oriente, le risorse energetiche scoperte, il supporto alle nostre imprese e l’interscambio commerciale con il paese di cui condividiamo alternativamente con la Francia il primato, ben avrebbero giustificato una più assidua e auspicalmente continua presenza del tricolore in tali acque.

Né si può tralasciare che, come già accennato in premessa, qualora dovessero profilarsi nuovi scenari di crisi acuta tra i due paesi, le motivazioni consisterebbero proprio nel confine marittimo e nel conseguente impatto sullo sfruttamento delle risorse energetiche. Il Force Commander di Unifil, sempre europeo e da poco tornato italiano, avrebbe proprio nella MTF il maggior strumento di sorveglianza, apprezzamento di situazione e dissuasione. Una Europa della Difesa consapevole, avendo tra l’altro proprie unità navali dislocate assegnate alla forza, avrebbe dovuto promuovere meccanismi di consultazione comunitaria per ruotare al comando della missione sia terrestre che navale propri ufficiali della stessa nazionalità o almeno complementari, per dare unità di visione strategica e condotta operativa. Purtroppo le idee semplici e concrete sono spesso le più difficili a realizzarsi.

Paolo Sandalli

Note:

(1) Il Brasile ad esempio è molto attivo nell’ambito delle politiche di landgrabbing, attivamente praticate anche nell’area MENA (Middle-East – North- Africa). Inoltre la presenza navale brasiliana sulle sponde del Mediterraneo orientale ha molto contribuito a migliorare l’interscambio commerciale con i paesi dell’area.

(2) tra giugno-luglio 2018, movimenti di attivisti pro-palestinesi, anche incoraggiati e supportati da Ankara, assemblarono nei porti ciprioti la cosiddetta freedom flottilla, intesa a richiamare con azioni provocatorie l’attenzione internazionale sul blocco navale posto da Israele alle coste della Striscia di Gaza. Per Tel Aviv il blocco costituisce misura di sicurezza per impedire l’afflusso di armi e rifornimenti alle milizie armate, mentre gli avversari di Israele e gli attivisti evidenziano le conseguenze economiche sul benessere delle popolazioni della Striscia. La Mavi Marmara, dopo essere salpata da Cipro, fu abbordata davanti alle coste di Gaza dalle forze di sicurezza Israeliane con azione che fu molto criticata in ambito internazionale per la perdita di vite umane provocata dall’ abbordaggio.

(3) le aree di confine disputate sono poco più di 10. Tra queste spiccano le fattorie di Shebaa, un gruppuscolo di case coloniche abbandonate già appartenenti alla Siria e occupate da Israele nel corso della Guerra dei 6 giorni, ma che il Libano rivendica come proprie sulla base della citata carta del 1949 basata sui confini amministrativi ottomani e coloniali e il villaggio di Gayar, abitato da alawiti di origine siriana che godono ora ben lieti del passaporto e della cittadinanza arabo-israeliana, ma di cui Beirut rivendica la sovranità sulla base dello stesso criterio di cui sopra.

(4) il conflitto del 2006 iniziò il 12 luglio con il fuoco di razzi e artiglierie contro postazioni israeliane da parte di Hezbollah quale diversivo alla azione principale condotta dagli stessi miliziani che, varcata la blue line, assalirono una pattuglia israeliana uccidendo o ferendo 5 componenti e catturandone altri 2. La rappresaglia di Tel Aviv si scatenò con il massiccio bombardamento di obiettivi strategici, il blocco aeronavale degli accessi al paese e la parziale occupazione del sud del paese, peraltro dimostratasi insostenibile a causa della guerriglia e del controllo del territorio da parte dei miliziani. La Risoluzione 1701, approvata da entrambi i governi, prevedeva, oltre al cessate il fuoco e al ritiro di Israele dal sud del paese, anche il disarmo di Hezbollah, di fatto mai avvenuto.

(5) Israele, così come molti altri tra cui gli stessi Stati Uniti e la Turchia, non rientra comunque tra gli stati che aderiscono o hanno ratificato nel loro ordinamento la Convenzione UNCLOS sul Diritto del Mare e si rifanno al diritto consuetudinario.

2018-10-21T18:33:58+00:0021 Ottobre, 2018|0 Comments

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