Turchia come ago della bilancia nel futuro della Siria

Di Valeria Giannotta

È un periodo di traffico diplomatico per i principali attori politici coinvolti nel conflitto siriano. Dopo l’annuncio del presidente Donald Trump del ritiro delle truppe americane, si è creata una nuova incertezza, quella relativa al riempimento del vacuum territoriale e del nuovo equilibrio di potenza. Le truppe di terra americane sono in Siria sin dall’autunno 2015, a seguito della decisione dell’amministrazione Obama di inviare delle forze speciali per addestrare i combattenti curdi locali contro Daesh. Nel tempo i soldati sono aumentati e con essi il numero delle basi militari nel nord est del Paese. Sebbene nel corso del conflitto Ankara abbia esortato più volte Washington a consegnare le proprie basi e a cessare di armare le milizie curde del YPG (Unità di protezione del popolo curdo), nessuna mossa concreta è stata intrapresa. Anzi, mentre le ambizioni curde pongono profondi grattacapi ai funzionari turchi, Gran Bretagna e Francia hanno intensificato l’impegno con le forze YPG nella lotta contro il Califatto.

Come riflesso delle ultime dinamiche interne alla Siria e degli eventuali scenari postbellici, i maggiori players hanno avviato nuove negoziazioni sul piano bilaterale a garanzia dei rispettivi interessi. Le potenze militari in campo – dagli Stati Uniti alla Turchia e dalla Russia al regime di Assad- stanno lottando per obiettivi politici diversi. In questo mosaico è soprattutto la Turchia ad essere impegnata nel bilanciare la propria posizione sia come alleato degli Stati Uniti che come membro promotore del gruppo di Astana insieme a Russia e Iran, che come stato direttamente esposto alle minacce provenienti oltre confine.

Da quando il regime di Assad è riuscito a riconquistare gran parte dei territori con l’aiuto di Iran e Russia, la Siria settentrionale è diventata uno dei campi di battaglia più pericolosi dove gli schieramenti stanno diventando più netti. Dalla provincia di Idlib ai cantoni controllati dalle milizie curde del YPG, diversi gruppi armati stanno ancora combattendo l’un l’altro per rivendicare il controllo del territorio. Nelle ultime settimane da più parti è stata avvallata l’ipotesi di una buffer zoneper contenere l’espandersi delle minacce e salvaguardare la lunga linea di confine con la Turchia. Anche sulla scia del recente attacco terroristico a firma Daesh, che ha coinvolto alcuni soldati americani a Manbij, città controllata dall’YPG a ovest del fiume Eufrate, area in cui Stati Uniti, Russia, regime di Assad e Turchia vantano la propria presenza militare in diverse località, la creazione di un’eventuale zona di sicurezza assume un’importanza strategica cruciale per tutti gli attori politici. Data la porosità del confine, la maggiore preoccupazione di Ankara è rappresentata dalla presenza in diverse parti della Siria settentrionale delle forze curde dello YPG, considerata come la costola siriana del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), a sua volta riconosciuto anche da Washington e parte della comunità internazionale come organizzazione terroristica. Da parte loro, invece, gli Stati Uniti, hanno scommesso da tempo sullo YPG nella lotta contro Daesh e nel contenimento delle milizie iraniane.

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Dopo sempre più assidui braccio di ferro riguardo il sostegno accordato ai gruppi armati curdi, avallata di recente da un controverso commento di John Bolton, consigliere americano per la sicurezza nazionale, a cui è seguito un duro tweet di Donald Trump, che minacciava di colpire economicamente la Turchia in caso di mancata protezione dei curdi, Washington ed Ankara si sono trovati concordi sulla creazione di una safe zone profonda 30 km al confine tra Turchia e Siria.  Ciò nonostante, Ankara non è persuasa dalla strategia statunitense che legittimerebbe la presenza del YPG, ponendo una minaccia diretta all’integrità territoriale della Turchia. Per il presidente Erdoğan la condizione sine qua nonper la messa in sicurezza dei confini è il pieno controllo da parte turca dell’area occupata dai curdi sulla scia di quanto già compiuto nella zona tra Jarablus ad Al Bab, dove nel 2016 con il lancio della missione Scudo Eufrate a sostegno dell’Esercito Libero Siriano (FSA) la Turchia è riuscita ad ottenere il controllo. Nella stessa logica rientra l’operazione Ramo d’ulivo lanciata ad Afrin nel 2018 e la più recente messa in opera – insieme a russi e iraniani-  di una de-escalation zonenella provincia di Idlib.

A onore del vero, già nel 2012 Erdoğan aveva suggerito la creazione di una zona sicura di 30-40 km tra le città siriane del nord di Jarablus e al-Rai, ma il piano non si è mai concretizzato.  Oggi l’urgenza sarebbe la completa pulizia dell’area dai gruppi terroristici sotto l’egida della Turchia senza l’interferenza degli Stati Uniti. Con il partner oltreoceano, infatti, permangono serie discrepanze per quanto concerne la zona di Manbij, cittadina siriana a circa 100 km da Afrin dove stazionano truppe americane, obiettivo di Ankara nella sua lotta contro i curdi del PYG. Le richieste della Turchia agli Stati Uniti sono chiare: in primo luogo, il ritiro immediato dei militanti curdi da Manbij ad est dell’Eufrate, condizione imprescindibile per Ankara affinché si possano poi intraprendere passi concreti con gli Stati Uniti, a cui è stato più volte chiesto di cessare ogni cooperazione militare e politica con il PYG. Malgrado un anno fa si sia trovato l’accordo per una roadmapdi uscita, ad oggi la situazione rimane sostanzialmente invariata e la Turchia insiste sull’implementazione dell’accordo anche alla luce di un suo nuovo prossimo intervento transfrontaliero. Ciò presupporrebbe la consegna di alcune basi militari americane alle forze turche e la ritirata dello YPG delle zone che attualmente controllano.

In realtà, se da una parte l’attuale campagna americana protegge lo YPG, prevenendo il suo sradicamento, dall’altra mira a proteggere gli interessi di Israele nei confronti dell’Iran. Allo stesso tempo Israele difende l’idea di un’area curda indipendente non solo per contrastare definitivamente Daesh, ma soprattutto per contenere l’influenza iraniana in Siria.

Appare chiaro che la creazione di zone sicure e stabili per una Siria indipendente e unificata è un obiettivo strategico condiviso, anche se le modalità per contenere la minaccia jihadista e difendere i rispettivi interessi ad oggi rimangono divergenti. In tale scacchiere rientrano gioco-forza gli intensi colloqui tra Turchia e Russia, il cui consenso è inevitabile per i piani di Ankara. In passato la Turchia ha potuto organizzare due principali operazioni antiterrorismo in Siria per eliminare la presenza di Daesh e YPG lungo i suoi confini proprio grazie all’assenso della Russia che ha permesso anche di stabilire punti di osservazione a Idlib. Come co-fondatori del processo di Astana e intermediari di un accordo bilaterale chiave su Idlib, Erdoğan e Putin sono sempre stati molto cauti a non interferire negli interessi reciproci, anzi hanno cooperato per ridurre la violenza in tutto il paese e per trovare una soluzione politica in conformità con le pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza ONU. Insomma, in una logica di potenza discende che qualsiasi azione turca in Siria deve ricevere il beneplacito russo.  Tuttavia, nonostante abbia svolto un ruolo chiave nella creazione di zone di de-escalationa Idlib, Mosca non prevede alcuna zona sicura nei territori controllati dallo YPG. Invece, caldeggia fortemente il pieno controllo del regime di Assad sulla Siria e il trasferimento dei territori curdi sotto il controllo del governo siriano. In altre parole, con l’obiettivo strategico di ripristinare lo status quo ante bellum, la Russia si ergerebbe a mediatore tra il regime di Assad e il YPG. Sottolineando la validità dell’accordo di Adana che nel 1998 non solo ha garantito la resa alla Turchia del leader del PKK Abdullah Öcalan, ma ha soprattutto vietato la presenza del PKK e dei suoi affiliati sul territorio siriano, il Cremlino ha ventilato ai turchi la garanzia dei propri confini nella lotta al terrorismo con l’obiettivo di incoraggiarli a collaborare con il regime siriano. In effetti, il Protocollo di Adana era stato uno strumento importante nel rinsaldare l’amicizia tra Turchia e Siria all’inizio degli anni 2000 e a rafforzare i rapporti tra i due Paesi al punto da considerarsi ‘partner privilegiati’. Dopo che la crisi degli anni ‘90 aveva portato i due paesi sull’orlo della guerra, anche grazie a questo protocollo, i rapporti con Damasco sono migliorati al punto di essere un esempio di confidence-building. Con l’inizio della guerra civile siriana nel 2011 e il congelamento delle relazioni diplomatiche con il regime di Assad l’accordo è stato sospeso. Riattivare questo meccanismo costituirebbe una nuova base per futuri colloqui diplomatici, specialmente in vista del prossimo summit trilaterale che prevede anche la partecipazione dell’Iran. E non è un caso che nei giorni scorsi il regime di Damasco abbia affermato che sin dal 2011 la Turchia ha violato il patto, sostenendo il ‘terrorismo’ contro la Repubblica araba siriana e occupando parte del suo territorio.

Per quanto Putin non abbia mai espresso un’aperta contrarietà alla creazione di una zona di sicurezza all’interno della Siria, una nuova campagna turca potrebbe comunque stridere con l’intento russo di condurre i curdi siriani sotto il controllo di Damasco, tanto più che anche la Francia avrebbe esercitato con un certo successo pressioni su Mosca per proteggere i curdi.  In quella che sembra una meticolosa strategia della pazienza, la Russia calibrerà le proprie mosse in base a come Turchia e Stati Uniti saranno in grado di affrontare così tante questioni in sospeso.  Davanti a negoziati complicati, però, il presidente turco sembra non voler transigere oltre: sempre più frequenti sono le dichiarazioni contro l’America, che enfatizzano una nuova imminente operazione militare a est dell’Eufrate, strumentale anche a rafforzare la propria base elettorale in vista delle elezioni amministrative del prossimo 31 marzo.

2019-02-06T09:36:38+00:005 Febbraio, 2019|0 Comments

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